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Le riforme insabbiate 12/07/2006

CORRIERE DELLA SERA -
Si ricorderà che prima del referendum del 25 e 26 giugno destra e sinistra hanno entrambe promesso di migliorare le rispettive Carte. Per la verità la promessa della destra non era oggettivamente credibile. Sarebbe stato un caso di «cosa fatta, capo ha». Ma so bene che anche nella sinistra si annidano parecchi ipocriti aperti al dialogo soltanto fino a quando «avuta la grazia, gabbato lo santo».

Ciò nonostante il Paese è ormai diffusamente sensibilizzato sulla necessità di migliorare la Costituzione del '48. Il referendum sulla riforma «federalista» (diciamo così) della sinistra nel 2001 mobilitò soltanto un magro 34,1 per cento; la nuova Costituzione di Lorenzago è stata rifiutata dal 63,1 per cento con un'affluenza del 53,7 per cento. Eppoi è dal 1983 (commissione Bozzi) al 1997 (la bicamerale di D'Alema) che i tentativi istituzionali di riforma si susseguono e infallibilmente falliscono. Sarebbe strano se l'opinione pubblica non avvertisse che un problema di riforme esiste.

Esiste anche un generale consenso, tra chi si interessa a queste faccende, sugli obiettivi. In primo luogo occorre rinforzare il capo del governo; in secondo luogo occorre superare il bicameralismo paritario; in terzo luogo bisogna riprogettare l'attuale decentramento di tipo federale; infine, dobbiamo adottare un sistema elettorale assennato. Dunque il problema non sono gli obiettivi. Il problema è quale sia lo strumento che ci consenta di procedere con la ragionevole prospettiva di arrivare in porto.
Oramai le bicamerali sono bruciate (ricordo che anche la commissione Bozzi era, in piccolo, una bicamerale). Restano sul tappeto tre proposte:

1) l'inedita proposta Barbera-Ceccanti di una «convenzione» composta per un terzo rispettivamente di parlamentari, di rappresentanti delle Regioni e di esperti designati dalle organizzazioni sociali;
2) la classica riesumazione dell'idea di un'Assemblea costituente;
3) il ritorno a un'utilizzazione puntuale e mirata della procedura di revisione costituzionale prevista dall'articolo 138. Come tornerò a precisare, io sono contrarissimo da sempre all'elezione di un'Assemblea costituente. Ho anche obiettato alla proposta Barbera-Ceccanti perché mi sembrava una proposta qualsiasi, e cioè senza una ratio che la giustifichi. I rappresentanti delle Regioni sono lì per migliorare la devolution? Figurarsi. E poi cosa c'entrano gli esperti designati dalle organizzazioni sociali? Io li leggo come un riempitivo che suona bene e nulla più. Sia come sia, io sono per lo strumento minimo, normale, dell'articolo 138. Ma questo è lo strumento giuridico. Resta da inventare un nuovo strumento materiale, e cioè «chi sono» i nuovi addetti ai lavori da mettere al lavoro. Perché oramai dovremmo aver capito che l'ostacolo nel quale inciampiamo ogni volta sono proprio i parlamentari, o più precisamente i «partiti parlamentari».

Le assemblee costituenti funzionano all'inizio, nella fase fluida del sistema partitico e finché il senso dell'appartenere a un intero prevale su quello dell'appartenere a una «parte»; dopodiché non funzionano più. Il problema è, allora, che nel modificare una Costituzione i parlamentari sono parti in causa - e quindi in conflitto di interesse - che difendono strenuamente il sistema elettorale che favorisce la loro parte e le strutture di potere che danno loro potere. Ci aggiriamo così in un circolo vizioso? In parte sì. Ma questo circolo vizioso può anche essere spezzato.

Giovanni Sartori
Mercoledì, 12 luglio 2006

 
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