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Libri: tra Hillman e Philip Roth

LA REPUBBLICA -
"La pura e semplice sorpresa rappresentata dalla nomination di Lindbergh aveva risvegliato un'atavica sensazione di paura, la paura di essere indifesi, che c'entrava più con Kisinev e i pogrom del 1903 che col New Jersey di trentasette anni dopo". Controstoria, fantastoria, storia parallela, storia fatta con i "se". Cosa sarebbe successo se invece di Franklin Delano Roosevelt fosse diventato presidente degli Stati Uniti Charles A. Lindbergh, l'uomo della traversata oceanica, dello Spirit of Saint Luis nonché antisemita e ammiratore di Adolf Hitler? Sono esperimenti non nuovi, anche in Italia c'è chi li ha tentati inventandosi un Duce alleato degli americani anziché dei tedeschi, per esempio. Ma se a provarci è un mostro sacro come Philip Roth, la cosa diventa più impegnativa. E infatti Il complotto contro l'America (tr. it. V. Mantovani, Einaudi, 18,50 euro) non era ancora uscito che già riempiva gli editoriali dei giornali Usa. Che cosa è questo libro? ci si chiedeva. Un ritratto allegorico dell'America di Bush? Una denuncia dello strapotere della destra cristiana ospite d'onore alla casa Bianca? Il racconto della sconfitta del sogno americano dell'integrazione? Chi sono gli ebrei di cui parla Roth in questo libro: la tipica famiglia che lo scrittore sa descrivere con precisi colpi di pennello fin dai tempi di Pastorale americana oppure la minoranza progressista e libertaria oggi quasi sparita di scena? C'è una deriva fascista in America?

Sono tutte domande alle quali Roth ha risposto con grande distacco sostenendo che quello che descrive in questo libro è un'America che perde i suoi valori e si disgrega nonostante resti in piedi il sistema democratico su cui quei valori erano innestati. La marea che travolge i personaggi di Roth, ebrei perfettamente americani, lettori più del Racing Form che del quotidiano yiddish Forvertz, comincia attraverso un'elezione legittima e un presidente scelto dai cittadini soprattutto perché promette loro che l'America non interverrà in un conflitto, la Seconda guerra mondiale, che è un fatto interno all'Europa. E poi si trasforma nel senso di inquietudine e di insicurezza che il potere sa trasmettere senza dover parlare. E certe minoranze capiscono prima di tutti, con lo stomaco, qual è la faccia che si nasconde dietro un viso.


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L'uomo è conflitto, la guerra è dentro di lui. Per questo è così bravo a portarla anche fuori. Chi dice che la guerra è disumana ha in mente un'idea di umano monca. Ma nello stesso tempo ha ragione perché la guerra è un archetipo e come tale trascende il singolo uomo per diventare patrimonio dell'inconscio collettivo. E quindi, in un certo senso, la guerra è un dio come ben sapevano per esempio gli antichi greci. James Hillman non ha mai avuto paura di chiamare le cose con il loro nome e di parlare dell'altra faccia della luna. E così fa anche nel suo nuovo libro, Un terribile amore per la guerra (tr. it. A. Bottini, Adelphi, 17). Hillman è un pacifista convinto e si è impegnato in prima persona per aiutare John Kerry nella corsa alla Casa Bianca contro Bush. E le sue lotte civili sono rese ancora più disperate dal disincanto con cui guarda il mondo. La guerra è un mito, dice, di cui abbiamo la prima forma complessa nell'Iliade di Omero e l'ultima nelle guerre di oggi, nella giurisdizione delle forze armate, nei trattati di strategia militare, nei rituali con cui si celebrano i soldati caduti in missione. Sempre lo stesso mito, attraverso i secoli. Sempre lo stesso dio che non è più Marte ma che ancora governa e comdanda quella classe di persone a cui la società demanda il compito di fare le guerre. Si può guarire dal conflitto? Nessuno psicoterapeuta serio, e Hillman lo è, direbbe di sì. Ma qualcosa si può fare, anzi si è costretti a fare: riconoscere che la guerra è un mito e che come ogni mito, governa gli uomini. E' come dire che riconoscendo l'origine di un meccanismo nevrotico e portandolo alla coscienza, il conflitto si sblocca e si ridimensiona. Detto a livello collettivo, è la cultura, il coraggio intellettuale e civile di sporcarsi le mani con le pulsioni oscure non risparmiando nulla nell'analisi il lungo lavoro di terapia. I miti ci guardano costantemente e noi dobbiamo riuscire a sostenerne lo sguardo.

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Fakhra Younas è una donna pakistana dell'età apparente di 27 anni. Età apparente perché in Pakistan il sitema anagrafico è poco più di un'idea mal trapiantata. Ha un figlio e vive in Italia. E' figlia di una ballerina distrutta dall'eroina che in quel Paese è più facile da trovare della carne. Suo padre è Fateh Ali Khan, ma non quello famoso, è un musicista folk quasi omonimo. Da bambina ha subito molestie da uno zio barbuto tanto musulmano fervente in moschea quanto devastato dai demoni in privato. Suo marito, come molti altri uomini usano fare in Pakistan, un giorno per punirla di presunti tradimenti che prendevano forma nella sua mente di alcolizzato, l'ha immobilizzata con l'aiuto di amici, le ha tirato indietro la testa tirandole i capelli e le ha versato addosso dell'acido. Fakhra ha litigato con la morte per settimane, ha tirato avanti e prima o dopo è arrivata in Italia.

Qui è stata curata nel corpo e rafforzata in uno spirito che, per quanto avesse mostrato doti non comuni, stava scricchiolando. Come si suol dire in questi casi e non senza un senso di imbarazzo, Fakhra è una donna simbolo di migliaia di altre donne che ogni anno subiscono questo destino, le donne bruciate dall'acido, le nuove lebbrose che una volta deturpate da uomini intoccabili per un distorto diritto divino, diventano parenti e amici solo bocche da sfamare e precipitano nel nulla. Elana Doni, che ha raccolto la sua storia è riuscita a mantenere il tono asciutto usato da Fakhra nel descrivere i suoi orrori e la commovente bellezza nel raccontare le sue speranze e i suoi ricordi. Il libro si intitola Il volto cancellato (Mondadori, 16).

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Difficile stabilire se si può definire un romanzo "post-11 settembre" quando gli avvenimenti narrati prendono spunto da quella tragedia e si ripercuotono in una cittadina tranquilla non lontana da New York. Sta di fatto che L'ultimo giorno di quiete (tr. it. V. Curtoni, Tropea, 17,50) di Peter Blauner trasforma la tragedia delle Twin Towers in elemento narrativo, personaggio ingombrante dietro la vita di una famiglia americana. La trama è da crime story: un giorno il fiume Hudson restituisce il cadavere di una donna decapitata. Si scoprirà che è quello dell'amica della protagonista e il caso sarà affidato a un detective con il quale quest'ultima, ora sposata e con figli, ha avuto in passsato una turbolenta storia d'amore. E che approfitterà della situazione per rifarsi vivo. Personaggi principali, triangolo, situazione di conflitto come al solito. Ma tutto corroso dalla tragedia appena avvenuta e che ha reso l'America vulnerabile e scoperta come un nervo. La tranquillità e la routine privata crolla come crollano l'occupazione a la sicurezza economica nazionale, a tragedia si aggiunge tragedia e paranoia a paranoia.

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Avevamo bisogno di un saltimbanco, come lui stesso si definisce, per sentirci ripetere cose che davamo per scontate ma che scontate evidentemente non sono. Avevamo bisogno della sua leggerezza e del suo umorismo per toglierci di dosso il peso di ogni fanatico che parla per conto di Dio. Ci serviva un musicista dall'aria improbabile e pieno di dubbi per ricordarci che Dio ama scherzare mentre noi amiamo prenderci sul serio. Moni Ovadia ha scritto questo pamphlet, Contro l'idolatria (Einaudi, 12,80) in cui per prima cosa ci viene ricordato che cosa significa "Non avrai altro Dio all'infuori di me": non mettere nulla al di sopra del Dio di tutte le genti della terra "che fonda l'universale umano, la libertà, l'ugualgianza e la fratellanza, un idolo fazioso disponibile a ogni uso di parte". Cioè nessuna religione, legge di mercato e politica può comandare sulla libertà interiore di un individuo. Tema impegnativo ma stemperato da aneddoti, battute e witz, i motti di spirito tipicamente ebraici. Impagabile la barzelletta su Hitler che inveisce contro un ebreo che confessa di aver messo in giro storie irriguardose sul Fuhrer. "Come hai osato - gli urla in faccia - Non sai che io sono il fondatore del Reich millenario che cambierà la storia del mondo?" L'ebreo alza le mani e indignato esclama: "Ah! No, eh! Questa non l'ho messa in giro io!"


Dario Olivero

 
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