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Diamo un senso alle parole - Intervista a Ivano Fossati

LA REPUBBLICA -
Pensando alle sue canzoni si avverte lo sforzo costante di preservare l'integrità di un'arte spesso fraintesa e mortificata. Come De Gregori, Paolo Conte e pochi altri, la sua tenacia potrebbe farlo apparire come l'ultimo dei mohicani, uno degli eroi di quella speciale riserva indiana che sta diventando la canzone di qualità. Fossati, lei lo sente questo rischio? "Lo sento ma non come un pericolo" risponde. "Il mercato va in tutt'altra direzione. In effetti a volte ho la sensazione di essere un po' solo, già a partire dalla mia casa discografica che nel mio caso non mi sembra sappia bene quello che pubblica, ma in questo tempo è molto comprensibile, insomma per me è un forte dato di fatto più che un pericolo". Nel frattempo arriva un importante riconoscimento, nel nome di Eugenio Montale (il premio Librex-Montale che Fossati ritirerà questa sera al teatro Nazionale di Milano).

Non la imbarazzano i premi?
"Sì, ma ogni tanto capita che ci siano cose serie. Mi è successo di recente con Amnesty, e questi signori del premio Montale hanno scritto una motivazione così precisa e benevolente che mi ha rincuorato, mi hanno dato la sensazione di aver letto bene il lavoro degli ultimi vent'anni, che questo tempo non sia stato buttato".

Cosa stava facendo? L'hanno stanata nel mezzo di un periodo di riposo?
"Dall'inizio dell'anno sono stato quasi sempre in giro: Cuba, Francia. Per curiosare. Inizio adesso a scrivere e a maggio entrerò in studio per un disco che uscirà a fine anno o più verosimilmente all'inizio del prossimo".

A sentirla parlare sembra che tutto sommato nella riserva indiana si trovi perfettamente a suo agio. È così?
"Bisogna fare i conti con le proprie scelte, io la mia l'ho fatta vent'anni fa, nel 1984, con l'album Ventilazione. Le possibili conseguenze le avevo già previste: essere un po' più soli, più fuori dal mercato. Ma quello che m'interessava era vedere se nella canzone, in questo bel contenitore di quattro minuti, ci potesse stare qualcos'altro, non dico di meglio, perché io sono innamorato delle canzoni tradizionali, ho una venerazione per gli autori degli anni Sessanta, quelli che sapevano scrivere le vere canzoni di intrattenimento, è solo che io poi ho scelto una strada diversa".

Rimpiange la leggerezza degli anni Sessanta?
"Alcune canzoni di allora suonano oggi molto più belle e importanti di quello che ci apparivano allora".

Per esempio?
"Mah, io ho una sconfinata ammirazione per autori come Bardotti e Endrigo che erano riusciti a tenere una linea perfetta di intrattenimento, ovvero canzoni che potevano anche andare a Sanremo però contenendo qualcosa di distorto, di bello, di obliquo, con delle forti intuizioni".

Quando scriveva per altri era la conseguenza di questa fascinazione?
"Ma certamente, io allora pensavo di voler fare l'autore di canzoni".

La più riuscita delle canzoni che ha fatto per altri?
"Non sta a me dirlo, spesso citano Pensiero stupendo, o anche canzoni che io chiamo canzoni-gioco come Non sono una signora, ma anche recentemente ho scritto una cosa del genere per Adriano Celentano, intitolata Io sono un uomo libero, che era di nuovo una canzone-gioco, c'era anche un contenuto, ma soprattutto un tipo di enigmistica dentro assolutamente più giocosa che in altri casi".

Non crede che nel rapporto tra qualità e popolarità si sia un po' tornati indietro, che la canzone dominante sia oggetto di forte regressione?
"È così, ma è una regola di ogni tempo. È una battuta certo, ma mi viene da dire che spesso le classifiche bisogna leggerle rovesciando il foglio, e molto spesso su quel fondo si può trovare qualcosa di qualitativamente più alto, ma è un dato normale, la qualità bisogna cercarla".

Il problema è che c'è stata un'ubriacatura collettiva per cui per molti anni le canzoni dei cantautori erano anche quelle che stavano ai primi posti delle classifiche.
"Verissimo, soprattutto nel nostro paese, è un fenomeno durato una trentina d'anni, poi però il mercato con la M maiuscola è tornato a essere quello che deve, ma va bene così, ognuno di noi si è scavato una linea sua, uno spazio".

Dopo tutti questi anni di lavoro, sente che la sua maturazione personale corrisponda a quella di cantautore?
"Abbastanza. Se devo essere sincero mi sembra che la maturazione personale, che mi auguro ci sia stata, si sia riflessa sui temi che ho scelto di scrivere e cantare. Oggi per esempio ho un'attenzione fortissima per ogni parola che scrivo perché ne sento la responsabilità, ma è lo stesso tipo di responsabilità che una persona adulta deve avere anche quando parla, tutti noi cerchiamo di non dire sciocchezze né tantomeno di scriverle".

E non è difficile oggi che le parole sembrano immerse in una nebulosa confusione di significati?
"Io ci sto attento, certo, sento intorno a me questa confusione nell'uso delle parole, ma non credo che la scelta giusta sia quella di arroccarsi. Credo che nella confusione linguistica ci si debba mettere le mani, sporcarsele, prendere tutto quello che sta intorno, anche quello che non ci piace".

È quello che ha fatto col suo ultimo disco?
"Sì, era la voglia di utilizzare i modi gergali che utilizzano tutti, per vedere quello che c'è dietro, magari rovesciandoli, ma usandoli, per evitare di trovarsi veramente soli in cima alla montagna, dove nessuno ti comprende più".

Ha già una sensazione su quello che sarà il suo prossimo disco?
"La sto cercando, e in parte l'ho trovata, anche perché ci sto pensando da qualche mese. Penso ai viaggi che sto facendo. Ogni volta che ci si muove per il mondo inconsapevolmente ci si porta dietro delle cose, sono certo che quelle che sto raccogliendo in giro finiranno nelle canzoni, come sempre".

Forse saranno canzoni nomadi, di movimento?
"Credo di sì, anzi, le dirò, lo spero".

Gino Castaldo

 
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