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L'articolo 11 va alla guerra

"L'Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali". L'art. 11 della nostra Carta Costituzionale esordisce in questo modo nel rigettare ogni logica di accettazione dell'uso della forza come meccanismo succedaneo alla politica per perseguire i propri fini nazionali a danno di altri Stati. È giusto mantenere fittiziamente in vita questo principio fondamentale in un mondo in cui la guerra è diventata un mezzo ordinario per fronteggiare teatri di crisi internazionale?

Al momento in cui è stata redatta la Costituzione, in Italia gli echi di grida, boati, spari, fango e sangue prodotti dalla Guerra Mondiale e dalla Guerra civile erano troppo ravvicinati. Sul piano internazionale, le devastazioni del conflitto portarono ad una rapida istituzione dell'O.N.U., organismo multilaterale deputato a regolare i rapporti fra i popoli in un ottica di pace e concordia fra gli Stati, anch'esso fondato sul rifiuto della guerra e sul divieto di uso della forza (art. 2, par. 4 Carta dell'O.N.U.). Il successivo strutturarsi del mondo per blocchi contrapposti, reciprocamente ostili e pericolosamente nuclearizzati, di fatto bloccò unilaterali iniziative belliche delle due opposte superpotenze, salvo operazioni sotterranee o geograficamente limitate (si pensi, fra le altre, alla guerra di Korea, del Vietnam, all'invasione sovietica dell'Afghanistan, alla guerra anglo-argentina per le isole Malvinas), sulla base della saggia consapevolezza che volendo annichilire gli avversari (secondo un verbo particolarmente caro ad alcuni dei militari italiani impegnati a Nassiryia) si sarebbe finiti per essere annichiliti. Perciò, sussisteva un divieto generalizzato di uso della forza o, se si vuole accedere ad una diffusa interpretazione meno restrittiva, di effettuare le classiche guerre fra Stati.

Il crollo del blocco sovietico, facendo venir meno il timore di catastrofi nucleari, aveva immediatamente spinto il gigante americano a presentarsi al mondo come pronto a superare il precedente tabù e a considerare la guerra non più come l'extrema ratio conseguente agli ordinari mezzi pacifici di soluzione delle controversie, ma come uno autonomo strumento di perseguimento degli obiettivi nazionali, cui eventualmente far seguire la politica e la diplomazia per fornire la necessaria copertura e legittimazione. Si pensi all'invasione afghana del 2001. L'iniziale casus belli fu individuato nella necessità di colpire i rogue States che forniscono assistenza ed aiuto ad Al Qaeda, dopo il terrificante attentato dell'11 settembre. Tuttavia, i capi di tale organizzazione non vennero smantellati (forse sarebbe opportuno guardare un po' più a destra, in Pakistan, Stato un po' più che canaglia, ma incredibilmente qualificato come alleato americano), e la legittimazione dell'uso della forza, ex post, venne individuato nel tetro burqaa in cui l'intero paese era stato avvolto dal regime talebano.
Oppure, si consideri la seconda guerra del Golfo. Rispetto ad un'iniziale casus belli (in)fondato sul possesso di mass destruction weapons, l'amministrazione americana ha giustificato l'intervento armato ormai compiuto con la necessità di sovvertire il regime dittatoriale retto da Saddam Hussein e di "esportare" nel paese la democrazia. Tali argomentazioni, fra l'altro, hanno segnato anche l'abbandono del precedente principio internazionale di non ingerenza e di rispetto della sovranità statale.

L'Italia, dal suo canto, ha preso parte a tutte le più importanti operazioni belliche degli ultimi quindici anni. Ha fatto parte della coalizione che nel 1991, su mandato dell'ONU, attaccò l'Iraq a seguito della maldestra invasione del Kuwait. Ha partecipato attivamente, nel 1998, alla guerra del Kosovo. Ha inviato le proprie truppe dopo l'attacco americano in Afghanistan nel 2001 e in Iraq nel 2003. Tuttavia, nel frattempo, l'art. 11 della Costituzione è rimasto lì, intangibile, isolato, come Giovanni Drogo che, affacciato alla sua fortezza, scrutava inutilmente nel deserto un arrivo dei Tartari, e non si accorgeva dello scorrere della vita alle sue spalle. Questa norma fondamentale è rimasta formalmente in vigore, probabilmente il nostro parlamento è stato tratto in inganno dall'uso di termini anglofoni quali peace keeping, peace enforcing (probabilmente c'è stato un difetto di traduzione: si sa, noi italiani abbiamo problemi con le lingue straniere) o di termini quali operazione di pace, operazione di polizia internazionale.

Indubbiamente, l'attuale assetto internazionale impone delle riflessioni. Forse è possibile una modifica della valutazione di liceità dello strumento bellico. Delle due l'una. O si mantiene in vita il precetto, e lo si rispetta; o lo si modifica ritenendolo superato. Le norme giuridiche non piovono dal cielo, non vengono lanciate da aerei come gli aiuti umanitari in Afghanistan, ma costituiscono la copertura e regolamentazione giuridica dei fenomeni sociali. Limitando il discorso al nostro ordine interno, è necessario, prima di tutto, smettere di parlare di operazioni di pace. Una volta si aveva il coraggio di dire la guerra è guerra. Non ha senso parlare di operazione di pace e poi vedere i nostri soldati combattere la battaglia dei due ponti a Nassiryia, sparare gridando "annichiliscilo!", morire colpiti da mine esplosive o da armi di guerra. Una volta abbandonata tale ipocrita censura linguistica, bisogna scegliere: o si rivoluziona la nostra politica estera nel senso di ritenere illecita ogni forma di utilizzo dello strumento bellico (salvo per fini di legittima difesa), così ritornando all'originario divieto di cui alla prima parte dell'art. 11; oppure si modifica la norma e si abroga formalmente, oltre che sostanzialmente, il ripudio della guerra, con tutte le conseguenze etiche, culturali e politiche che ciò comporta.
A modestissimo parere di chi scrive, bisognerebbe ritornare allo spirito pacifico della nostra Carta Costituzionale, senza tralasciare quelle che sono le esigenze del nostro tempo. In tale ottica, ribadendo il rifiuto dell'uso della forza come strumento di definizione delle controversie fra gli Stati, sarebbe quanto mai opportuno valorizzare la seconda parte dell'art. 11, dando luogo anche a sostanziali cessioni della propria sovranità nazionale, al fine di sviluppare non solo virtualmente, ma effettivamente uno spazio di difesa europea, idoneo a contribuire "alla pace, alla sicurezza, allo sviluppo sostenibile della Terra, alla solidarietà e al rispetto reciproco tra i popoli, al commercio libero ed equo, all'eliminazione della povertà e alla tutela dei diritti umani, in particolare dei diritti del minore, e alla rigorosa osservanza e allo sviluppo del diritto internazionale, in particolare al rispetto dei principi della Carta delle Nazioni Unite" (art. 1-3, comma 4 Trattato costituzionale europeo).
Questa politica di difesa comune europea potrebbe rappresentare un modo veramente umanitario per fronteggiare situazioni di crisi ed emergenza, non per depredare le altrui risorse energetiche, ma per eliminare le radici stesse e gli elementi basici dell'odio internazionale e dello "scontro di civiltà", in una logica di riclassificazione dello strumento bellico come via di fatto, perseguibile solo a fronte di uno stato di necessità non ovviabile con gli ordinari strumenti politici e diplomatici, in una logica, sia chiaro, esclusivamente di difesa degli Stati e dei diritti umani.

Un possibile scenario futuro. Prima di bombardare l'Iran sul presupposto del possesso di armi nucleari, sarebbe opportuno cercare una collaborazione con le forze democratiche iraniane contrarie al regime teocratico. Di fronte all'eventuale fallimento di ogni dialogo con le autorità in ordine al progetto di non proliferazione delle armi nucleari, si dovrebbe mirare ad isolare il governo iraniano sia all'esterno, con i governi degli altri Stati, sia all'interno, sottoponendo la popolazione a sanzioni in conseguenza della condotta irresponsabile dei loro leader, che possono essere efficacissime seppur incruente (si pensi all'esclusione dai campionati mondiali di calcio proposta dal prof. Panebianco dalle colonne del Corriere qualche mese fa), passando attraverso gli ordinari strumenti di coercizione diplomatica. Solo all'esito di un simile percorso (da svilupparsi non necessariamente in tempi biblici) potrebbe ritenersi possibile l'uso della forza, senza Napalm, per favore, senza bombardare mercati o matrimoni, ma attaccando esclusivamente obiettivi strategici militari, in ossequio a quel principio di proporzionalità fra minaccia e reazione che ci deve far ritenere eccedenti e quindi illegittimi oltre che inaccettabili i così detti "danni collaterali".


Jhonny si alzò col fucile di Tarzan ed il semiautomatico...
Due mesi dopo la guerra era finita.

(B. Fenoglio, Il Partigiano Johnny).


Roberto Savelli

 
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