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La questione israeliana dopo la visita a Gerusalemme del Presidente russo

Lo scorso 27 Aprile Vladimir Putin, in qualità di Presidente della Repubblica Federativa Russa o CSI, si è recato nello stato di Israele. È la prima volta dal 1948, anno di fondazione dello stato ebraico, che un presidente russo si reca a far visita nella città di Gerusalemme. Lo storico evento è avvenuto proprio a ridosso della 60ma commemorazione della vittoria degli alleati nella seconda guerra mondiale.
Ad accogliere Putin è stato il presidente israeliano Ariel Sharon che, conoscendo alcune parole di russo, dal momento che i suoi genitori nacquero in quella terra, lo ha salutato nella sua lingua dicendogli "Lei è fra amici".
Sharon si è detto compiaciuto che Putin abbia scelto proprio questo periodo per effettuare il suo viaggio, sottolineando che "Il popolo ebraico e lo stato di Israele non dimenticheranno mai ciò che fece la Russia durante la seconda guerra mondiale liberando i campi di concentramento".
Putin ha passato quasi due ore in visita al museo dell'olocausto Yad Va-shem di Gerusalemme, dove ha anche rivisto le immagini della liberazione del campo di Auschwitz-Birkenau ad opera delle allora armate rosse e davanti alle quali si è visibilmente commosso.

Al ritorno in patria, Putin ha presenziato ai festeggiamenti della vittoria sui nazisti insieme a molti esponenti politici, fra questi anche il nostro Presidente del Consiglio.
Degno di nota le dichiarazioni rilasciate dal presidente americano George W. Bush, il quale sul suolo russo ha sostenuto che la "comunistizzazione" dell'Europa orientale avvenuta nella seconda metà del novecento è stata un errore.
Putin, per niente scosso, ha risposto che si adopererà affinché non si ripeta una seconda guerra fredda. Resta da vedere, se le cose continueranno così, fino a che punto il Presidente russo potrà evitare un inasprimento della situazione, anche solo su un piano puramente dialettico.
Probabilmente la provocazione di Bush nasce dal ruolo di crescente importanza che la Russia sta giocando nelle recenti scelte di politica estera del governo di Israele, orientato a stabilire nuove alleanze internazionali capaci di ricucire gli strappi occasionatisi con gli stati confinanti.

Proprio la Russia sembra essere la pedina che potrebbe mettere in moto un processo di riavvicinamento nello scacchiere medio-orientale. Non è un segreto d'altronde che se il governo di Gerusalemme ha un canale preferenziale con Washington quello di Mosca gode di ottimi rapporti con Teheran. L'unica preoccupazione è che sebbene la voce di Israele solitamente suoni amica all'orecchio statunitense, questa volta potrebbe risultare talmente stridula alla potenza americana da renderla sorda ad ogni ragione tranne che ai propri interessi. In un simile scenario anche un canto di pace come l'Hevenu shalom alejem va sussurrato dolcemente a meno di voler destabilizzare il già traballante equilibrio politico di quella area geografica.
Putin, compreso il pericolo, sta tentando di organizzare per il prossimo autunno un incontro tra le parti interessate: israeliani, palestinesi, americani, russi ed europei insieme ai rappresentanti dell'Onu.

Curioso constatare come non sia stata presa in considerazione la presenza di una delegazione da parte dell'unica altra superpotenza con diritto di veto nel consiglio di sicurezza dell'ONU: la Cina. D'altronde l'ultimo stato ad abbandonare il regime economico comunista, che su larga scala si è dimostrato inefficiente, si è chiuso in un isolamento politico e sociale. Questo atteggiamento può essere ricondotto ad una duplice matrice. Da un lato le scelte di politica economica che la Cina sta compiendo e che certo non facilitano l'adozione di un regime paritario di commercio bidirezionale, dall'altro l'esigenza di dare la priorità ad altre questioni di diplomazia internazionale che il governo cinese sente più vicine, come il riavvicinamento con Taiwan e con il Giappone. In particolare nei rapporti con il Giappone si registrano progressi importanti.
I cinesi, che all'epoca della seconda guerra mondiale subirono da parte giapponese tanto una feroce aggressione militare quanto una politica di occupazione etnica paragonabile solo a quella nazista, hanno ottenuto delle scuse ufficiali per quella che è stata una delle pagine più buie della storia dell'umanità. Naturalmente ciò non significa poter cancellare le barbarie perpetrate, ma il riconoscimento delle proprie colpe da parte di chi se ne reso autore è l'unica base da cui poter partire per cercare soluzioni di dialogo per il futuro.

Nel momento in cui sulla scena internazionale si registrano precedenti importanti come quelli descritti sarebbe significativo e importante poter consegnare definitivamente alla storia anche l'aberrante eredità di Balfour, il ministro degli Esteri britannico che il 2 Novembre 1917 scrisse la lettera in cui espresse il suo favore alla causa sionista.
Sappiamo cosa debba essere fatto perché ciò avvenga.
A cominciare dalle scuse dovute ad una popolazione umiliata nella sua dignità che, atto dovuto, includono il refuso della commissione Peel e di tutti quegli accordi di pace unilaterali che tanto gli assomigliano nella loro reale inutilità.


Daniele Rossini

 
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