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La tentazione di allargarsi 19/07/2006

LA STAMPA -
Il tema di una ridefinizione della maggioranza sembra destinato a segnare la vita di questo governo. La fragilità della sua base al Senato è un problema difficile: anche se non si tratta sempre di questioni delicate come la spedizione militare in Afghanistan, nell'aula del Senato può essere Afghanistan tutti i giorni. Non è un caso che la capogruppo Finocchiaro e il sottosegretario Letta abbiano sollevato il problema nelle assemblee dei rispettivi partiti. L'hanno sollevato quasi come un problema tecnico, che riguarda la conduzione dell'aula. Ma ovviamente non è un problema tecnico, e incorpora un dilemma politico che è costitutivo di questa coalizione e del modo in cui si è formata: unita dall'antiberlusconismo più che da una omogenea cultura di governo. Per dirla con le parole del ministro Mussi, «ora che il dovere patriottico di cacciare Berlusconi è stato compiuto, possiamo sentirci più liberi». Mussi parlava del partito democratico, ma la formula si attaglia benissimo anche ai vari mal di pancia che in queste settimane minacciano il governo, e continueranno a minacciarlo nel futuro. Liberi di che? Di non essere d'accordo; di privilegiare la propria astratta coerenza rispetto agli impegni di coalizione; di tirare la corda sino al punto critico; e anche di seguire meschine logiche di visibilità differenziale.

Di fronte a questa situazione, che cosa si può fare? Una possibilità è quella di puntare al ricompattamento della maggioranza attraverso l'uso del voto di fiducia. Un uso che è legittimo, naturalmente, ma rischia, se troppo insistito, di ingessare la vita parlamentare, irritando l'opposizione e la stessa maggioranza. L'altra possibilità è quella di puntare a convincere alcuni esponenti dell'opposizione ad approvare alcuni provvedimenti. Gli effetti politici dell'una e dell'altra scelta sono molto diversi.
La prima assicura alla sinistra estrema centralità e potere, facendone il soggetto principale di una continua contrattazione. Del tutto comprensibilmente quindi quelle forze protestano a ogni accenno ad allargamenti della maggioranza. Inoltre, in questo modo si mette un ostacolo non da poco sulla strada del costituendo partito democratico. Il settore riformista della maggioranza resta infatti legato mani e piedi al settore massimalista, e nella costituzione del nuovo partito si vede una rottura pericolosa: anche per questo motivo la gestazione del partito democratico appare così lenta e incerta.
La seconda corrisponde a una evoluzione programmatico-politica della coalizione, che sarebbe invece del tutto in armonia con la nascita del partito democratico: una evoluzione riformista, europeo-atlantica in politica estera, liberale e di mercato in politica economica. Questo è il dilemma di fondo, che stringe in un unico nodo il partito democratico e l'allargamento della maggioranza. Restare vincolati allo schema politico della coalizione antiberlusconiana - col suo programma spesso ambiguo, formulato in modo da scontare in anticipo defatiganti bracci di ferro tra riformisti e massimalisti - o affrontare un'evoluzione politica che metta capo, a poco a poco, a un equilibrio più normale, più europeo, tra il nucleo politico riformista della coalizione e le ali estreme? Si tratterebbe di un equilibrio difficilissimo: ma il messaggio di Finocchiaro e Letta dice che anche nell'altro caso l'equilibrio è difficilissimo e precario. Vedremo se e come Prodi e l'Ulivo sceglieranno di risolvere il dilemma.

Fin qui si parla di un allargamento della maggioranza, che porti voti in più e non determini un mutamento degli assetti politici. Ben altra cosa sarebbe la sostituzione di un pezzo di maggioranza con un pezzo dell'attuale opposizione. Questo è lo scenario paventato, quasi per contrappasso, da Rifondazione; ma è difficile pensare che il centrosinistra voglia ripetere l'infelice esperienza del 1998. Ancora diverso è lo scenario della grande coalizione, sul quale è tornato Tremonti: un'ipotesi che entrerebbe in gioco in caso di caduta dell'attuale governo. Sarebbe, in quel caso, un'ipotesi legittima; ma è lecito per lo meno dubitare che quella soluzione possa giovare all'evoluzione del sistema politico italiano, che non è caratterizzato, come quello tedesco, da un bipolarismo consolidato, ma annaspa ancora in una transizione incompiuta, sempre a rischio di ritorni al passato.

Claudia Mancina
Mercoledì, 19 luglio 2006

 
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